giovedì 24 agosto 2017

OBBLIGO SCOLASTICO FINO AI 18 ANNI?


Una buona notizia per la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: l’8 settembre sarà depositata la legge di iniziativa popolare per la Scuola della Costituzione, che fissa – in un modello assai diverso da quello attuale – l’obbligo scolastico a 18 anni. In un’estate di annunci (rimasti tali) – in primis un impegno sull’inadeguatezza dei salari – e di (brutte) sorprese (ovviamente in via di realizzazione) – l’allargamento della sperimentazione del percorso secondario di II grado in quattro anni – Fedeli ha esternato anche al Meeting di Comunione e Liberazione: irrinunciabile passerella per le anticipazioni. Non posso non convergere su una dichiarazione: “Io sarei per portare l’obbligo scolastico a 18 anni perché un’economia come la nostra, che vuole davvero puntare su crescita e benessere, deve puntare sull’economia e sulla società della conoscenza, così come peraltro ci viene dall’ultima Agenda Onu 2030 sottoscritta anche dall’Italia”. Tra “io sarei” e impegno concreto passano fiumi di demagogia e di parole totem, a uso e consumo di media e ingenui. Dare un’occhiata al testo, redatto in modo aperto da chiunque – docenti, studenti, genitori – abbia voluto partecipare, sarebbe però utile a chi ha spesso mostrato di sapere poco di storia della scuola e politiche di istruzione.

Prima di tutto, però, Fedeli deve ricordare alcune cose. L’obbligo scolastico, previsto nell’art. 34 della Carta, fu una straordinaria rivoluzione culturale, politica e sociale. Affidò alla scuola della Repubblica l’emancipazione anche di coloro che, provenendo da condizioni svantaggiate, potevano avere la possibilità di migliorare la propria cultura e, dunque, la propria condizione di cittadino e di lavoratore, capace di scelte consapevoli. Con quel provvedimento, cioè, la scuola diventò lo strumento con cui abbattere e differenze e ostacoli che impedissero il pieno sviluppo della persona umana. La scuola, appunto: cultura, conoscenza, pensiero critico. Istituzione repubblicana che oggi, a colpi di (contro)riforme, si vuole ridurre a infarinatura di conoscenze blande e volatili, prevaricate da una visione aziendale di competenze illusoriamente spendibili sul mercato del lavoro. Come se il lavoro si esaurisse in un saper fare sbrigativo e superficiale e non fosse nobilitato da cultura e conoscenza, riflessione e ricerca. Come polli in batteria gli studenti vengono forniti di nozioni smart, non comprendendo che tale processo impoverirà la società tutta. E, soprattutto, che esso condannerà gli ultimi – gli svantaggiati – a una cittadinanza azzoppata. Il progetto di società neoliberista blinda le condizioni individuali su base socioeconomica: emergono e saranno destinati ad emergere solo i privilegiati dalla nascita in famiglie e contesti favorevoli.

Obbligo scolastico, poi, significa dentro la scuola e un impegno della Repubblica ad opporsi con tutte le forze alla dispersione scolastica. Oggi andare a scuola è una – non la principale – delle possibilità di istruzione, tante sono le attività altre affastellate nell’anno; e la diminuzione di un anno di percorso va proprio in questo senso. Ritardo e dispersione e demagogica evocazione di competenze per il lavoro con uno dei provvedimenti più disastrosi della legge 107/15 – alternanza scuola-lavoro – hanno minato la scuola italiana, facendo seriamente dubitare che in questa scuola, ossequiosa ai diktat neoliberisti, dirigista, valutativa e competitiva, sia ancora praticabile l’ambiziosa scommessa di consegnare a tutti il diritto-dovere ad apprendimento e emancipazione: saperi, studio e relazione educativa sono infatti subordinate alle esigenze mercantili, per cui approfondimento, analiticità e pensiero critico paiono essere orpelli inutili se non ostacoli da eliminare. Nessuno considera che, oltre a un bacino di potenziale sfruttamento, per lo più di studenti minorenni (terzo e quarto anno), e allo svuotamento del concetto di cultura emancipante, l’alternanza scuola-lavoro, coerente con Job’s Act, costruisce volutamente lavoratori acritici, inconsapevoli dei propri diritti e doveri: contrattazione collettiva e lotte per la dignità del lavoro non sono assolutamente un riferimento, né un vincolo imprescindibile per la cultura di impresa: si mira a manodopera “flessibile”, cioè incapace di comprendere e difendere il senso profondo del lavoro e dell’essere lavoratori.

A realizzare un obbligo scolastico costituzionalmente efficace non sarà un riordino dei cicli che abbatta tempi (e diritti a apprendimento e lavoro) e moltiplichi opportunità apparenti (progetti, stage, tecnologie sempre nuove, in realtà prove tecniche di allontanamento definitivo da rigore, riflessione e dimensione davvero pedagogica). Ma una vera riforma della scuola, la restituzione del compito politico-istituzionale frantumato da anni di scelte scellerate e tardive rincorse a modelli neoliberisti da altri già dismessi, propagandati come “nuovo che avanza”; in realtà, una scuola desueta e classista, voluta da esecutori acritici del primato dell’economia su esistenze individuali e interesse generale.

Infine, un altro testo che consiglio vivamente al ministro di leggere. Si tratta della Costituzione Italiana, quella che dice di voler consegnare a ogni studente, dimentica forse che già ne esiste il relativo insegnamento e che la classe politica di cui fa parte ne ha tentato varie volte la manomissione. Vada agli artt. 33 e 34: disegnano molto nettamente un progetto di scuola. Quella che anche lei, con le sue chiacchiere da bar e i suoi decreti a sorpresa, sta tentando di distruggere.

“Rendere l’Erasmus accessibile a tutti” – “Nel giro di pochi anni costruiremmo una classe dirigente nuova, italiana ed internazionale” ha detto Fedeli in una intervista a ilsussidiario.net, prima di intervenire al meeting ciellino. Per il ministro dell’Istruzione per favorire questo processo occorre rendere “l’Erasmus accessibile a tutti dentro il percorso curricolare”. “La dimensione europea è imprescindibile. Lo dico anche per la mia storia personale, sono stata presidente del sindacato europeo. L’Erasmus – spiega – è un’esperienza formativa che cambia la vita dei giovani. Vuol dire più cultura, più conoscenze, più qualità nella relazione umana e civile, più capacità e adattabilità nel nuovo mondo del lavoro”.

“Sperimentazione 4 anni Licei scelta utile”– Il Piano nazionale di sperimentazione in 100 classi per il diploma in quattro anni che coinvolgerà Licei e Istituti tecnici “mi è sembrata una scelta utile”. Lo afferma la numero uno del dicastero dell’Istruzione aggiungendo: “Se quella sperimentazione funzionerà, e tutti i decisori politici saranno d’accordo, a quel punto si dovrebbe fare una rivisitazione complessiva dei cicli scolastici da punto di vista della qualità dei percorsi didattici interni. So che ha suscitato polemiche. Ma io penso che sia molto più trasparente e serio mettere dei paletti, istituendo una governance trasparente, con tutti i soggetti, anche quelli che hanno perplessità che vorrei coinvolgerli nel seguire questa sperimentazione. Se alla fine del percorso vediamo che è discriminante anziché inclusiva non la faremo”.

“Pronta a battaglia per gli stipendi degli insegnanti” – Non è giusto che “la retribuzione dei docenti sia la più bassa di tutta la Pubblica amministrazione” ha detto Fedeli al Meeting di Comunione e Liberazione, specificando di essere “pronta a fare la battaglia per l’aumento degli stipendi”. “Se si ritiene importante, quale in effetti è, il ruolo dei docenti e dell’insegnamento – aggiunge la ministra – lo devi socialmente riconoscere, anche dal punto di vista retributivo”. Sulla necessità di un’integrazione dei ragazzi di origine straniera, Fedeli ricorda che “in altri Paesi ci sono ancora le classi differenziate: bisogna raccontarla la scuola italiana”.

giovedì 10 agosto 2017

LA NASCITA DEL COSTUME A DUE PEZZI



Il solito luogo comune vorrebbe l'uomo moderno sempre più emancipato e lontano da quel comune senso del pudore che in teoria (molto in teoria) vorrebbe invece avviluppate su se stesse le civiltà passate, vittime di non si sa quali filosofie repressive. E anche nel campo dell'abbigliamento questo supponente atteggiamento, intriso di prosopopea tutta contemporanea ed illuminista, si rispecchia nella falsa credenza di aver scoperto per primi certi vestiti particolarmente audaci o solo particolarmente comodi.

E' il caso del bikini che, dietro la facciata del due pezzi utilizzati come bandiera di liberazione, cela invece una lunga storia. Tanto che si possono tranquillamente osservare, magari su di un normale manuale di storia dell'arte (e magari cercando i ragguardevoli mosaici siciliani di Piazza Armerina), serafiche signorine intente a fare ginnastica o a farsi belle nei loro ampi bagni con indosso nulla più che due succinti pezzi di stoffa.

Comparso infatti per la prima volta durante il periodo imperiale romano (I-II secolo d.C.), il bikini, da quanto si apprende nella ricognizione storica effettuata da una rivista come "Focus" "non serviva in origine per nuotare, perché all'epoca si nuotava nudi. Né serviva per prendere il sole in spiaggia, pratica diventata abituale parecchi secoli dopo. A quanto pare il bikini era utilizzato soprattutto per l'atletica, la danza e nelle scuole di ginnastica".

Ad ogni modo, per la concezione moderna di tale indumento bisogna aspettare il 1946 quando, in Francia, lo stilista Louis Réard presenta in una collezione di costumi da bagno un modello che è l'antesignano, il prototipo di ciò che conosciamo noi oggi. Modello rinominato, tanto per dare un'idea dell'effetto (desiderato) che l'indumento poteva suscitare, nientemeno che "atome".
Però si dà anche il caso che proprio quell'anno gli Stati Uniti fecero esplodere nel Pacifico, su di un atollo chiamato Bikini (situato nelle isole Marshall), alcuni ordigni nucleari. Poiché, ovviamente su piani diversi, questo evento fece tanto scalpore quanto l'introduzione del nuovo costume, gli stilisti ribattezzarono l'ormai celebre capo d'abbigliamento con lo stesso nome dell'atollo.

Da allora questo stuzzicante capo del guardaroba femminile è entrato prepotentemente a far parte dell'armamentario seduttivo del gentil sesso, variato e disegnato in mille maniere, alcune delle quali fra le più impensabili (soprattutto da parte di stilisti fantasiosi come Jean Paul Gaultier).


Inizialmente indossato da attrici e cantanti, che lo utilizzarono per esibire le loro forme solitamente perfette (o solo per suscitare un po' di scalpore), con il tempo è diventato "patrimonio comune" delle donne di tutto il mondo e di ogni condizione sociale.


La nascita ufficiale del bikini risale all’immediato dopo guerra, nel 1946, data in cui il sarto francese Luis Réard fece indossare il due pezzi a Micheline Bernardini. La modella e spogliarellista, dopo aver sfilato presso il Piscine Molitor, ricevette più di 50 mila lettere di fan. Il francese si era inspirato ad un modello disegnato nel 1932 da Jacques Heim e denominato Atome, che però non decollò mai.

In realtà l’origine del bikini è ben più antica: già nell’antica Grecia, il due pezzi era diffuso tra le donne, così come si può desumere dai dipinti e dalle raffigurazioni dell’epoca.

Il nome bikini a quello di un atollo, situato nelle isole Marshall, dove venivano condotti esperimenti atomici dall’esercito degli Stati Uniti. L’invenzione di Réard avrebbe avuto sulla società lo stesso effetto della bomba atomica, poiché considerato un capo capace di rivoluzionare il mondo della moda.

C’è da dire però che il bikini fu vietato alle fino agli anni ’50. I controlli sulle spiagge da parte della polizia erano frequenti e le donne che indossavano bikini erano soggette a sanzione. All’epoca il bikini era vietato anche alle partecipanti al concorso di bellezza per aggiudicarsi la corona di Miss Mondo. La moda del bikini iniziò a diffondersi solamente quando il rivoluzionario costume da bagno fu indossato da Brigitte Bardot nel film Manina, ragazza senza veli del 1952 e in E Dio creò la donna del 1956.

La scena in bikini più famosa del cinema è e resterà quella che ritrae Ursula Andress in bikini bianco nel film Agente 007 – Licenza di uccidere. Il famoso bikini della bond girl fu poi venduto all’asta per 57,992 euro.

Dalle illustri case di moda alle più varie catene di abbigliamento, tutti (o quasi) si sono cimentati nella creazione e commercializzazione di costumi da bagno. Così il capo da spiaggia per eccellenza ha subito durante gli anni una lunga evoluzione, cambiando forme, tagli e tessuti. La versione più minimale è senza dubbio il tanga. Fu un italo-americana ad indossarlo la prima volta sulla spiaggia di Ipanema a Rio de Janeiro, Rose de Primo. Per farsi notare ad un festa in spiaggia, alla donna venne l’idea di modificare lo slip del proprio bikini, inventando così il tanga.

mercoledì 9 agosto 2017

MODA E ARTE, UNA CONTINUA EVOLUZIONE



Assioma: la moda è un’interpretazione della vita in tutte le sue manifestazioni, necessariamente soggettiva perché si fonda sul sentire personale del creativo, che persegue l’obiettivo dell’unicità dei risultati. Proprio nel segno della creatività e dell’unicità, tra le infinite tessere del mosaico che chiamiamo realtà, è da sempre privilegiata la liaison che avvicina la moda alle altre dimensioni del fare cultura: letteratura, cinema, ma soprattutto arte figurativa.
Moda e arte: la prima ha costantemente guardato alla seconda come fonte di ispirazione, come “Wunderkammer” da cui ricavare suggestioni da reinterpretare poi negli abiti. La storia del costume è segnata da innamoramenti per innumerevoli orizzonti artistici. Si passa, per esempio, dalle fascinazioni per le “chinoiserie” al culto del “japonism in fashion”. L’espansione coloniale è il canale attraverso il quale giungono nel vestire occidentale i riferimenti etnico-esotici di matrice africana, i colori della Polinesia, i richiami di sapore primitivo al tattoo.
Quello tra arte moda è un rapporto in continua evoluzione che conosce un momento-chiave all’inizio del ventesimo secolo, quando la relazione diventa bidirezionale. È il momento in cui l’arte si accorge della moda, inizia a studiarla, a riconoscerla come ambito in cui l’essere umano esprime non solo la sua potenzialità creativa, ma soprattutto la sua identità. È il momento delle avanguardie storichedel primo Novecento: Futurismo, Costruttivismo russo-sovietico, Dadaismo, Cubismo.
Filippo Tommaso Marinetti, padre del Futurismo, è il primo intellettuale che evita di deplorare “le insostenibili leggerezze della moda” (atteggiamento più che abituale tra i suoi consimili) arrivando a indicare la moda stessa, con il suo continuo mutare, come codice di comportamento ideale per gli artisti che si propongono di guardare avanti. Non è da meno Giacomo Balla, con il suo trattato (in verità un manifesto) del 1914, Le vêtement masculin futuriste.
L’arte e la cultura teorizzano la moda. E la creano, propugnando un abbigliamento che non si limita al nero, al grigio e alle mezze tinte borghesi, per portare invece lo slancio del colore e delle forme insolite nelle strade e nei salotti. È il trionfo delle geometrie (rombi, losanghe, triangoli) giocate in stoffe e colori differenti, accoppiati tra loro secondo una tecnica antesignana rispetto all’odierno patchwork. È una nozione rivoluzionaria e anticonformista, che intenzionalmente pone l’accento sull’eccesso e mira alla lotta contro l’omologazione e la massificazione della nuova era, nei loro risvolti spersonalizzanti, ben raccontati in due opere-cult: il film Metropolis di Fritz Lang e il romanzo 1984 di George Orwell.
In una dimensione del vivere del tutto diversa, placati gli intenti rivoluzionari, la moda contemporanea grazie alla sua intelligenza intrinseca sa far fruttare una lezione così importante, così decisiva. Da dichiarazioni di rottura, di protesta e di ribellione, il gusto per il colore, il gioco degli intarsi, la tecnica del patchwork si sono evoluti sino a divenire intenti stimolanti di eleganza, espressioni di know how tecnologico, ricerca instancabile di novità. Che è poi l’anima vera della moda. Di oggi e di sempre.